Fiducia e sfiducia
Se si considera che l’illustre Piero Clamandrei scriveva quanto segue nel 1935, stupisce come sia cambiato davvero poco nella giustizia civile.
Forse cambiare le regole del gioco, con riforme sempre nuove non serve per velocizzare i processi.
Occorre operare una trasformazione culturale.
Modificare il rapporto tra gli operatori del diritto, magistrati, avvocati e cittadini.
Riscrivere le regole del pensiero comune.
Trasformare in fiducia un rapporto improntato sulla sfiducia.
Impresa ardua. Ma chi prima inzia….
Riprova di quanto appena detto è riassunto in questi due brani tratti dal Libro “Elogio dei giudici”, scritto dal grande Piero Calamandrei.
Sull’oralità del processo civile
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“Secondo le regole scritte nel codice di procedura civile, il giudice istruttore, prima di rimettere la causa dinanzi al collegio per la discussione solenne in pubblica udienza, dovrebbe «istruirla» (cioè mettere insieme tutti gli elementi probatori che potranno poi servire al collegio per la decisione) nella appartata tranquillità del suo ufficio: questo vorrebbe dire prendere in esame un processo alla volta, convocare nella propria stanza, per un’ora esattamente fissata, i due difensori di quella sola causa, invitarli a mettersi a sedere dinanzi al suo tavolino colla presenza del solo cancelliere, chiudere l’uscio che da sul corridoio per evitare l’ingresso di persone estranee, e intrattenersi con essi alla buona e senza fretta, de plano et sine strepitu iudicii, fino a che, attraverso quel colloquio confidenziale, le questioni essenziali della controversia restino chiaramente fissate. Invece, nei tribunali delle grandi città, i giudici istruttori, sovraccarichi di lavoro, hanno dovuto prender l’abitudine di convocare per la stessa ora avvocati e parti di venti o trenta processi insieme: e gli avvocati, invece di aspettare il loro turno nel corridoio, irrompono tutti insieme nella stanza del giudice e si accalcano intorno al suo tavolino, in modo che quel poveretto rimane schiacciato sotto quel grappolo umano, dando l’immagine dell’ape regina sommersa sotto il brusio dello sciame. La conclusione è che il giudice, incapace di orientarsi in quella confusione (come se uno credesse di risparmiar tempo leggendo venti libri tutti insieme!), se la piglia contro la mala creanza degli avvocati: gli avvocati se la pigliano contro la inettitudine del giudice. Ma poi giudice e avvocati si trovano d’accordo nel rinviar la causa ad altra udienza, e nel dar tutta la colpa al codice”.
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Sulla Fiducia e sfiducia
“Domanda: — Perché in Italia non si riesce a introdurre sul serio nel processo civile l’oralità (che vorrebbe dire semplicità, celerità e lealtà nelle relazioni tra avvocati e giudici), e contro il tentativo fatto dal codice vigente di rendere orale almeno il procedimento dinanzi al giudice istruttore, avvocati e giudici si sono alleati, per tornare a poco a poco,nella prassi, al processo scritto?
Risposta: — Perchè l’ oralità è l’espressione della fiducia (“mi basta la tua parola»), mentre la scrittura è l’espressione della diffidente cautela (verba volant, scripta manent; «carta canta, e villan norme»).
Il processo civile da noi, come più in generale tutte le relazioni tra il cittadino e la pubblica amministrazione, è fondato sulla reciproca diffidenza: diffidenza del giudice verso l’avvocato, diffidenza dell’avvocato verso l’avvocato che gli sta di fronte.
Dice il difensore al difensore avversario: — Quel che mi chiedi, mettilo per iscritto; ci penserò, e ti risponderò. — Oppure: — Quel che mi prometti, mettilo per iscritto: allora comincerò a crederci.
E così il giudice: — Queste argomentazioni del difensore, preferisco leggerle messe su carta: a rileggerle con calma, scoprirò se c’è dietro qualche tranello. E avrò il vantaggio di rimandare la decisione di qualche mese.
Un altra ragione si aggiunge a spiegare perchè spesso gli avvocati preferiscono lo scrivere al parlare: in iscritto si possono presentare senza arrossire tesi che non si avrebbe il coraggio di sostenere a tu per tu col giudice: charta non erubescit.
(Insomma, se dovessi definire il costume che regola nel processo le relazioni tra gli avvocati, lo esprimerei in questa formula: « affettuosa sfiducia )”.
Avv. Filomena Iervolino